Il Piccolo Gianbattista

Il Piccolo Giambattista

 

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Mi chiamo Giambattista, ho dieci anni e abito al Cantello, una contrada di Valtorta, un piccolo paese in cima alla Valle Brembana. Valtorta è formata da cinque contrade, sparse sui versanti della Valle Stabina. Abito, con i miei genitori, i miei sette fratelli e i nonni paterni, in una delle più antiche cascine del paese. Con noi, nella stessa casa, vive anche la famiglia di una zia. Lo zio è emigrato in Francia e lo vediamo solo a Natale e d’estate. In tutto siamo diciotto persone. Al piano inferiore della cascina c’è la stalla e la casera, dove facciamo il formaggio. Al piano superiore ci sono la cucina, le camere da letto, un ripostiglio e il fienile. Alla sera ci riuniamo nella stalla per stare caldi. Ci raccontiamo delle storie; io preferisco quelle di paura. Qualche volta cantiamo e mio cugino suona l’organino (una specie di fisarmonica a bocca), oppure ci raccontiamo delle barzellette. La mamma e le mie sorelle cuciono e ricamano alla luce dei lümii (lumini), mentre la nonna e gli le altre donne anziane recitano sottovoce il rosario.

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Una volta con una mia sorellina e due cugini ci siamo ammalati di bronchite. Siamo rimasti nella stalla una settimana, fino a che non ci è scesa la febbre. Per calmare la tosse ci mettevano sul petto delle polentine fatte con l’avena che si comprava in farmacia. Un giorno la zia ci ha sgridati perché ci siamo mangiati le polentine. La mia sorellina non è riuscita a guarire, io per fortuna si. Qui da noi ci si ammala spesso, specialmente da bambini. Davanti alla mia casa c’è un portico sotto il quale passa la Via del ferro. Spesso passano delle carovane di muli stracarichi: qualche volta fanno una sosta per riposare e mangiare qualche cosa. In queste occasioni il papà si ferma a chiacchierare con i carovanieri. Offre loro da bere e da mangiare e scambia del formaggio o del vino con stoviglie o utensili. Arrivano anche dei commercianti che dalla Svizzera portano le loro merci fino alla vicina Valsassina. Non sempre capiamo la loro lingua, ma quando papà apre la quarta bottiglia tra di loro si capiscono benissimo.

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La mia giornata comincia alle cinque del mattino, quando facciamo colazione nella cucina. I grandi sono già in piedi e ci portano il latte che hanno munto nella stalla. Di solito mangiamo polente e latte e qualche volta, se abbiamo molta fame, la mamma ci dà anche del formaggio. Per mangiare ci inginocchiamo tutti intorno al forlà (fuoco). A pranzo e a cena ancora c’è sempre il parül (paiolo) con la polenta e il fiuri’ (formaggio liquido ottenuto dal siero del latte). A volte si mangia anche della carne, ma solo quando mio padre riesce a prendere una volpe, un corvo o qualche altro animale. Non sempre la carne è buona, anzi qualche volta è cattivissima, ma guai a protestare, e poi ti aiuta a sentire meno il freddo. Ogni tanto il papà ci porta con lui a caccia o a mettere le trappole e per noi è un momento di grande eccitazione. Ci costruiamo delle fionde o degli archi con le frecce e cerchiamo di prendere qualche cosa anche noi, anche se con scarsi risultati. Una volta ho avvistato una lepre e ho gridato a mio padre di spararle. Un istante dopo, lui mi guardava truce dal suo appostamento, con il fucile puntato dove prima c’era la lepre. Per un momento ho pensato che volesse sparare a me. Da allora per molti mesi sono andato solamente a caccia di lucertole.

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La cucina ha un soffitto a volta e, come buona parte della casa, è tutta nera di fuliggine perché non abbiamo un camino, ma solo un piccolo buco su una parete. In questo modo stiamo più caldi anche se, quando accendiamo il camino, tutta la cucina si riempie di fumo e ci lacrimano gli occhi. Allora apro la metà di sopra della porta, così il fumo esce e possiamo cominciare a respirare di nuovo. La parte sotto resta chiusa perché non entri l’aria gelida che dà i brividi. Una domenica mio papà, che è un forte bevitore, è tornato dall’osteria ed è entrato in cucina biascicando una canzone. Non si è accorto che la metà di sotto della porta era ancora chiusa e ci è finito sopra piegandosi in due e sbattendo il naso sul pavimento. La mamma si è svegliata e lo ha portato a letto dicendogli un sacco di parole che ci è proibito dire. La mattina il papà aveva il naso tutto rosso e gonfio ed era molto buffo, anche se nessuno ha osato ridere. Ai genitori diamo del “voi” e non dobbiamo mai mancare di rispetto. Anche perché quando beve spesso diventa cattivo.

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I nostri vicini hanno un telaio, con il quale fanno delle coperte di lana o delle stoffe di cotone. La mamma e la zia vanno ad aiutare le donne del vicinato a filare e tessere, così possono fare dei vestiti anche per noi. I vestiti nuovi però vanno sempre ai più grandi, mentre noi piccoli ci passiamo quelli usati. Alle volte mi capitano dei vestiti così pieni di toppe che devo stare attento a come mi muovo e a scuola mi vergogno. I pantaloni hanno i segni dell’orlo che cambia ogni volta che ce li passiamo. Mia zia dice che si può sapere quanti anni abbiamo contando il numero dei segni degli orli. Le stoffe più belle vanno alle mie sorelle grandi, che la sera le ricamano per farsi il corredo per la dote per quando si sposeranno.

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Dopo che ho riordinato la stalla con la mamma, esco di casa per andare a scuola a Valtorta. mi metto gli scarpei feracc, gli zoccoli con i chiodi e spesso devo correre perché sono in ritardo. Per arrivare in paese devo scendere fino al torrente, e risalire dall’altra parte attraverso il ponte del Bolgià. In tutto sono più di tre chilometri. Mio papà dice che il ponte è lì da sempre è che sopra ci è passato il nonno di suo nonno. D’estate, quando non c’è la neve, ci metto meno ad arrivare a scuola perché posso andare più veloce. Se sono proprio in ritardo per correre più in fretta mi tolgo gli zoccoli, anche perché ho paura di romperli.

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D’inverno invece ci metto molto di più perché con la neve si fa fatica e si rischia di scivolare e cadere nel torrente. Qualche volta tolgo gli zoccoli perché nella neve sono scomodi, ma dopo un po’ devo rimetterli perché non sento più i piedi. Prima di arrivare al ponte nascondo gli zoccoli dentro il tronco di un albero e mi metto le scarpe belle che mi porto nella cartella. Il ponte è l’unico collegamento tra le contrade e le case di Valtorta, e molti miei compagni devono attraversalo anche loro. Anche Piero e Diego sono spesso in ritardo. Quando ci incontriamo al ponte facciamo a gara a risalire lungo la mulattiera per vedere chi arriva primo a scuola. L’ultimo di solito si prende le bacchettate sulle mani dal maestro, così per superarci ci sgomitiamo e sgambettiamo. Qualche volta cado e mi strappo i pantaloni o la camicia e così quando arrivo a casa le prendo anche dalla mamma.

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La scuola si trova nel centro di Valtorta. Oltre alle scarpe, nella cartella mi porto il quaderno di bella copia, quello a righe e quello a quadretti, il sillabario e le matite che mi ha portato quest’anno Santa Lucia. Io sono fortunato perché sono riuscito ad arrivare fino alla quarta. Mi piacerebbe fare anche la quinta ma non ci sono abbastanza soldi e nessuno in paese è arrivato alla quinta. Almeno per quest’anno però non dovrò lavorare tutto il giorno. Quando non andrò più a scuola comincerò a lavorare con mio padre nella stalla e nei campi come i miei fratelli. Loro non sono contenti perché lui si tiene tutti i loro soldi e non gli rimane quasi niente. Lui dice che siamo fortunati perché almeno lui non è dovuto partire per cercare lavoro come molti altri di Valtorta. Il papà è analfabeta e la mamma ha potuto frequentare solo la prima e ha imparato a leggere dalle immaginette dei santi che ci danno a messa 

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La scuola è una delle case più vecchie del paese. Un tempo ci stava il Pretore di Venezia e alcune delle stanze del piano terra erano le celle per i prigionieri. Qualche volta il maestro ci minaccia di chiuderci lì dentro se non facciamo i compiti. Il maestro è molto severo, ha sempre la bacchetta sotto il braccio e quando si arrabbia ce la da sulle mani. Ha degli abiti sempre puliti e ordine, non come noi che siamo vestiti di stracci e sappiamo di fumo e di stalla. Quando non rispondiamo ci mette in castigo e invece di mandarci a casa a mezzogiorno, ci tiene lì fino alle quatto senza mangiare. Il peggio è che quando torno a casa devo ancora accudire alle mucche e mi sento debole perché non ho mangiato niente dalle cinque del mattino. A scuola almeno non abbiamo freddo perché ognuno di noi deve portare un pezzo di legno per la stufa. In tutto siamo quaranta alunni e quindi c’è sempre legna sufficiente. Sopra la scuola, al secondo piano, c’è la casa del maestro. Una volta ci sono entrato perché la mamma mi ha dato del formaggio da portargli. Dentro c’è un grande camino, il più grande che ho mai visto e le pareti sono bianche e non tutte nere come a casa.

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Dopo la scuola devo passare al mulino di uno dei miei zii a prendere la farina della polenta. Vicino al mulino c’è anche un maglio dove si producono chiodi e utensili. Se la farina non è pronta mi fermo a guardare Silvano, il fabbro, mentre lavora. Con delle grandi pinze prende un pezzo di ferro da sotto la brace nella fornace. Il metallo ha un colore bianco accecante che diventa subito di un rosso acceso. Poi il ferro incandescente finisce sotto al maglio che lo batte continuamente e pian piano cambia forma, mentre Silvano lo rigira velocemente. Quando lo osservo cerco di indovinare quale attrezzo sta realizzando: una roncola, un’ascia o una zappa? Poi il ferro rovente finisce dentro il secchio dell’acqua fredda e si alza una nuvola di vapore caldo che riempie la stanza. Silvano è famoso per i suoi coltelli, molto spesso i commercianti e i trasportatori di passaggio si fermano per acquistarne uno o per rifare il filo a una lama. Silvano appoggia la lama sulla superficie della grossa ruota di pietra umida della mola, e nella penombra della stanza si forma una scia di scintille che arrivano fino a terra, rimbalzando sul pavimento come se fossero vive. Ogni tanto, nei pochi momenti liberi, papà mi lascia aiutare il Silvano a portare il carbone fino alla fornace, così alla fine della stagione, se avrò lavorato abbastanza, mi regalerà un coltellino. Con questo, la sera, potrò costruirmi un vero arco, delle statuine di animali e delle barche per farle navigare nei ruscelli.

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Fuori dal maglio, invece del fuoco e delle scintille, è tutto un gioco d’acqua. Il canale che porta l’acqua si divide in una serie di condotti pensili che azionano le due ruote del maglio e del mulino. Qualche volta Tommaso, un muratore che sa fare un po’ di tutto, viene a riparare o a regolare i macchinari che ha costruito lui stesso. Allora lo osservo mentre muove le leve che azionano le saracinesche che regolano il flusso dell’acqua e il movimento delle due ruote. Una ruota aziona la pesante mazza del maglio e la grossa ruota di pietra della mola. La stessa acqua passa in un tubo di legno che aspira l’aria attraverso la fornace, facendo diventare la brace incandescente. L’altra ruota fa muovere la grosse ruota orizzontale di pietra della macina del mulino per il mais e i pestoni per schiacciare l’orzo. In paese Tommaso ha costruito un altro mulino e sta costruendo una segheria idraulica, che trasforma i grossi tronchi in assi. Mentre lui sistema i macchinari io lo riempio di domande e gli sto sempre dietro, finché non si spazientisce e mi minaccia di buttarmi nel torrente.

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Quando arrivo a casa con i miei fratelli devo aiutare i grandi ad accudire le mucche o nel lavoro dei campi. Abbiamo otto mucche e d’estate se ne aggiungono altre che mio papà, per racimolare qualche soldo in più, porta insieme alle nostre in alpeggio. La mia mucca preferita si chiama Pasquina, perché è nata la notte di Pasqua. Quest’anno la porteremo alla fiera del bestiame di Valtorta. Dicono tutti che è una bella bestia e che potrebbe anche vincere il primo premio. Io spero di no, perché il papà la venderebbe di sicuro. Mi ricordo quando è nata Pasquina: poiché non voleva uscire dalla pancia della Celeste, la sua mamma, il papà le ha infilato un braccio nella pancia e ha tirato fuori le gambe della vitellina. Visto che lei che non voleva ancora uscire, il papà è andato nel fienile, ha preso una corda e le ha legato le zampe. Poi ha chiamato lo zio e i cugini e la mamma e tutti insieme si sono messi tirare la corda per farla uscire. La nonna pregava in un angolo perché papà diceva che potevamo perdere sia la mucca che la vitella. Io dovevo cambiare continuamente le foglie per tenere pulito il giaciglio di Celeste mentre partoriva. Ad un certo punto, il vitellino è uscito improvvisamente, insieme a uno scroscio d’acqua e sangue. Io sono rimasto di sasso a guardare finché mio padre non mi ha strattonato per un braccio per farmi andare a prendere altre foglie pulite. Poi mi ha messo in mano la sacca viscida della placenta per darla da mangiare ai cani. Quando sono tornato Celeste si era ripresa e stava leccando la vitellina che era tutta bagnata e tremante, e fumava di vapore. È stato allora che la nonna l’ha chiamata Pasquina per ringraziare il Signore di avere salvato lei e la sua mamma.

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I momenti più belli sono quelli quando ci mandano da soli nel bosco a raccogliere la legna per il camino, o l’erba e le foglie secche che servono per dar da mangiare alle mucche e per far loro un giaciglio nella stalla. Ogni tanto, se riempiamo in fretta le gerle, ci avanza un po’ di tempo per giocare o per raccogliere nocciole e castagne, oppure i mirtilli, le radici dolci, il sambuco e la rosa canina per fare marmellate. L’attività più eccitante è rubare le mele o le ciliegie dagli alberi delle cascine vicine, così, oltretutto, ci passa un po’ la fame. I giochi che preferiamo sono il cip (nascondino), il mondo, le bocce con i ciottoli del torrente, giocare con l’acqua o fare il bagno nelle pozze. Ogni tanto ci addentriamo in una valletta dove ci sono le miniere di ferro che in estate sono vuote perché ci si lavora solo d’inverno. Nella bella stagione dentro è troppo caldo e umido e ci sono le infiltrazioni d’acqua. Alcuni miei compagni dopo la terza elementare sono andati a lavorare con i grandi nelle miniere. Noi ci entriamo tutti insieme cercando di farci coraggio e andare più avanti possibile. Ad un certo punto non si vede più niente e allora ci giriamo e cominciamo a correre all’impazzata gridando di terrore cercando di non rimanere indietro da soli. Se qualcuno si trova sulla nostra strada viene travolto senza pietà.

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Alla sera sono sempre molto stanco e qualche volta mi addormento nella stalla mentre diciamo il rosario. Quando andiamo a letto dormiamo tutti insieme in una stanza con i nostri genitori. Noi piccoli, per stare più caldi e perché c’è poco spazio dormiamo in quattro in un lettino, ü de cò, ü de pé (testa e piedi). Quando sono a letto e sto per dormire sento il respiro della mamma, che di giorno non vedo quasi mai, mentre con un bacio e una carezza ci da la buona notte. Allora chiudo gli occhi e ripenso ai momenti belli dell’estate scorsa, quando sono andato per la prima volta con mio padre e i miei fratelli a portare le mucche negli alpeggi, dove l’erba è migliore. Camminavamo tutto il giorno e non si mangiava molto, perché potevamo portarci solo poche cose. Ma ogni giorno era un’avventura e alla sera era dormivamo all’aperto vicino al fuoco. Per scaldarmi mi stringevo a Lampo, il mio cane preferito, con cui il papà tiene insieme le mucche. Avevo tutto lo spazio che volevo e mi addormentavo contento, guardando il sole che tramontava dietro le montagne mentre dall’altra parte del cielo spuntavano le prime stelle.

Da .. Museo Etnografico dell’Alta Valle Brembana

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